Cos’è successo a Moria e perché è un punto di svolta

10/20 • 7 min • Copia link

Attenzione: questo articolo è un po' datato e alcune informazioni potrebbero non essere aggiornate.

La notte tra l’8 e il 9 settembre 2020, il campo di Moria, sull’isola di Lesbo, è bruciato quasi completamente. La prima ipotesi è che alcuni residenti del campo abbiano appiccato una serie di incendi, ma le cause sono ancora da accertare.

Il motivo sembra essere una protesta contro il prolungamento della quarantena già in vigore dal 23 marzo. E’ scattato l’arresto per sei persone, tutte afgane, accusate di essere le responsabili dell’incendio.

Pochi giorni prima, infatti, 35 persone erano state trovate positive al Covid-19. Questa condizione le avrebbe messe, insieme ai propri familiari, in un’ulteriore restrizione della propria libertà di circolazione all’interno del campo.

Il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis accusa i migranti di aver cercato, tramite il loro gesto, di ricattare il governo. Mitsotakis si augura che quanto accaduto a Lesbo serva da monito all’Unione Europea, soprattutto come punto di partenza da cui costruire nuove e migliori politiche migratorie.

Le proteste

Dopo l’incendio, molti residenti di Moria si sono accampati nelle strade di Mytilene, la città che ospitava il campo. Altri hanno trovato rifugio nei campi di ulivi, nelle chiese, nei parcheggi dei supermercati, nei distributori di benzina, nei cimiteri.

Qui, hanno subito violenze sia dalla parte della polizia greca, che dai cittadini. Questi ultimi sono infelici di come la propria città sia luogo di rifugio di un numero così elevato di migranti. I rifugiati hanno protestato pacificamente affinché venissero portati nella mainland. Tuttavia, il progetto del governo greco è quello di costruire un nuovo campo permanente a Lesbo.

Le proteste si sono protratte per giorni. I residenti del campo rivendicano il diritto di non passare da un campo all’altro, da condizioni disumane ad altre.

Chiedono di essere portati sulla penisola, si interrogano sul perché dell’inerzia dell’Europa davanti al calpestamento dei diritti umani e dei diritti del rifugiato. La polizia ha risposto lanciando lacrimogeni su di una folla stremata, composta in buona parte da donne e bambini.

Moria e “l’inferno in terra”

Moria nasce nel 2013 su una ex base militare. Quando si parla di Moria si allude ” all’Inferno in Terra“, non solo per il sovraffollamento, per le scarsissime condizioni igienico-sanitarie, per il caldo che divampa d’estate e il freddo che scoppia d’inverno.

Sono numerose i racconti delle donne, che la notte rinunciano a usare i servizi per paura di essere violentate. Inoltre, davanti al campo, sono solite vere e proprie ronde di estremisti di destra.

Da alcune fonti risulta che, la maggior parte dei residenti di Moria è di nazionalità afghana (il 70%). Il restante 30% proviene da paesi quali, principalmente, Siria, Iran, Iraq, Pakistan, Camerun e Repubblica Democratica del Congo.

L’85% dei residenti del campo è classificato come rifugiato, mentre il restante 15% come migrante. Secondo l’UNHCR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), un terzo della popolazione di Moria è sotto i 12 anni.

Consultando Aegean Boat Report (organizzazione norvegese che fornisce informazioni riguardo il numero di arrivi e sbarchi nell’Egeo), Lesbo ha il più alto numero di arrivi. Da Gennaio 2020, il numero di residenti del campo è sceso. Il picco a marzo, con 21.995 persone, e il numero più basso a settembre, con 14.712 residenti. Anche i trasferimenti sulla mainland sono i più alti a Lesbo, con un totale di 13.539 persone da gennaio 2020.

Il nuovo campo

In un primo momento, navi e traghetti sono serviti da rifugio per alcuni soggetti vulnerabili. Dal 13 settembre, circa 5.000 rifugiati sono stati portati in un ex accampamento militare, dove affrontano condizioni non migliori del vecchio campo.

Altri 7.000 migranti si trovano tra Moria e il nuovo spazio. Qui, sono presenti più di 300 tende, in grado di ospitare circa 1.000 richiedenti asilo. Da alcune fonti risulta che le tende siano troppo poche per contenere un tale numero di persone.

L’accampamento si trova a Kara Tepe, affacciato sul mare, sempre sull’isola di Lesbo e a 4 chilometri dal vecchio campo. Gli sfollati di Moria sono hanno paura che il nuovo campo sia esattamente come quello appena raso al suolo.

Secondo l’European Council on Refugees and Exiles, la Commissione Europea il 17 settembre ha confermato che finanzierà e gestirà un campo rifugiati “moderno” che rimpiazzerà Moria. Per ora, il campo a Kara Tepe è sprovvisto di acqua corrente e di spazi per il distanziamento sociale.

Intanto, i positivi al Covid-19 salgono a 135. Su Refugees Support Aegean, si legge che il campo rimane chiuso alle organizzazioni che provvedono ad aiuti umanitari e legali, “col risultato che persone malate e donne incinte non ricevono le cure necessarie”.

L’UNHCR ha lavorato con le autorità locali per erigere le tende nel nuovo campo. Il New York Times riporta le parole di Philippe Leclerc, il rappresentante sul territorio greco, seocondo cui “l’agezia sta sostenendo anche soluzioni a lungo termine, insieme al supporto continuo dell’Europa ed una responsabilità condivisa“.

Il primo ministro Mitsotakis afferma che l’unica soluzione per i richiedenti asilo di continuare con le procedure di richiesta, è quella di spostarsi nel nuovo campo. Il ministro della protezione civile greca, Michalis Chrysochoidis, ha annunciato al The Guardian che “prevede di trasferire 6.000 rifugiati nella penisola entro Natale, e la restante parte entro Pasqua”.

La risposta da Grecia ed Europa

Sorge spontaneo chiedersi come sia possibile garantire quarantena, distanziamento sociale e servizi sanitari in un campo in sovraffollamento del 454% (originariamente costruito per 2.750 persone). Spoiler: non si può.

Mitsotakis ha dichiarato lo stato di emergenza sull’isola e ha chiamato alla solidarietà degli stati membri. Intanto, l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio) è riuscita a trasferire 406 minori non accompagnati da Lesbo alla mainland.

Come risponde la comunità Europea all’emergenza di Moria?

Italia

La Comunità di Sant’Egidio ha firmato un accordo con il governo italiano per l’apertura di un corridoio umanitario dalla Grecia.

In un tweet del Vatican News, si legge che 300 persone atterreranno a Roma. I rifugiati verranno inclusi in progetti di integrazione con corsi di inclusione sociale, culturale e linguistica.

Germania

Stando ad alcune agenzie di stampa tedesche, il governo accoglierà tra i 1.600 e i 2.700 migranti e richiedenti asilo da Lesbo, di cui fanno parte 408 famiglie con bambini.

Circa 5.000 manifestanti hanno sfilato per le strade di Berlino il 20 settembre. L’obiettivo: chiedere al governo di accogliere un numero più elevato di richiedenti asilo. Inizialmente, la Germania, in concerto con un’iniziativa Europea, avrebbe dovuto accogliere tra i 100 e i 150 minori non accompagnati.

Francia e Austria

Anche Macron si è detto pronto ad accogliere un numero consistente di richiedenti asilo e rifugiati da Lesbo, dando la precedenza a minori non accompagnati.

Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz si mostra fermo nella sua decisione di non accogliere migranti provenienti da Moria, “rischiando di commettere lo stesso errore del 2015 (anno della crisi migratoria) e dando alle persone falsa speranza”. Posizioni simili sono state prese da altri governi di destra, secondo un ragionamento comune: il campo di Moria fungerebbe da fattore di allontanamento dei richiedenti asilo.

Belgio e Olanda

I due paesi hanno espresso la volontà di accogliere tra i 100 e i 150 persone, di cui minori non accompagnati e famiglie con bambini.

Anche Slovenia, Croazia, Portogallo, Finlandia, Lussemburgo e Svizzera contribuiranno ad accogliere i soggetti più vulnerabili da Lesbo.

Il Nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo

Due settimane dopo il disastro di Moria, la Commissione Europea propone un “Nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo”. Il patto avrà validità di 5 anni, dovrà essere discusso dai 27 paesi membri e approvato dal Consiglio.

Secondo la proposta, i paesi membri che non intendono accogliere i migranti, dovranno invece prendersi carico delle persone le cui richieste di asilo sono state negate, e rispedirli nella propria nazione.

Agenzie per i rifugiati e attivisti per i diritti umani speravano invece in una quota obbligatoria, ovvero un numero fisso di richiedenti asilo di cui ogni stato membro dovrebbe prendersi cura.

di Caterina Esposito